Osteria de la Nôs

Tratto da “Vecchie Osterie Milanesi di Luigi Medici

 

 

El mangià e bev in santa libertàa

In mezz ai galantomen, ai amis,

In temp d'inverno al cold, al fresch d'estaa,

Diga chi voeur l'è on gust cont i barbis.

C. PORTA.

 

In seguit fan el nomm

A paricc ostarii

In dove gh'è vin bon, ost galantomm

E meior compagnii

Vun loda l'ostaria de la Nôs.

C. PORTA.

 

 

Nel sobborgo di Porta Ticinese, solcato dai bei canali del naviglio Pavese e del naviglio Grande, alcune vecchie osterie gustose sopravvivono tuttora e sono mete di scampagnate domenicali e di soste riposanti. Appena fuori del Dazio, nell'angolo a destra di quella tipica piazza, circondata da un lato da bassi portici provinciali, sotto i quali si aprono certe botteguccie simpatiche e casalinghe e certi caffè dove forse si ritrovano tuttora divani di velluto rosso e le cogome di rame fumanti, c'è l'Osteria della Nôs.

Un ampio portone, sotto il quale possono passare comodamente le «bare» cariche di ogni ben di Dio; un altrettanto ampio cortile, quello dello stallazzo, ove si può ancor vedere lo stalliere con la pipa in bocca e il fez rosso a sghimbescio, col fiocco di lana turchino; un albero gigante, forse sostituito al noce che avrà dato, in tempi lontani, il nome all'osteria; una casa non molto ampia, con l'uscio tipico protetto dalle spranghette d'ottone sulle tendine di pizzo; un'aria del buon tempo antico, che nelle giornate tiepide di maggio porta fuori, all'ombra degli alberi e dell'alta siepe le tavole, perché più liete squillino le voci degli ospiti, in campagnola libertà... Ecco l'Osteria della Noce. Un buon odor di risotto si diffonde; di quel risotto, che anche sotto il farmaceutico nome di «riz au laudanum» piaceva tanto a Stendhal.

E nell'interno, c'è la solita grande cucina, col solito grande camino, col cuoco vestito di tela bianca ai fornelli, ove fumano, nelle terrine e nelle casseruole, le vivande più care alla nostra gola ambrosiana. Ma ecco un angolo suggestivo... Ecco la stanzetta di Carlo Porta: così almeno ve la presenta il proprietario, aprendo l'uscio di un piccolo locale, arredato di un minuscolo sofà, di una vecchia caminiera e di poche suppellettili antiche, che san de nisciorin... E vi giura che qui il Porta passò liete serate e liete giornate, in compagnia di amici.

Forse qui nacque quella poesia, nella quale egli, in on disnà de allegria, si schermiva d'improvvisare un brindisi in versi?...

 

Mi ve preghi a dispensamm

de fa vers in sui duu pée

perchè, minga per lodamm

in sto gener sont tripée

stanti a fai settáa polid

figurev peu inscì sui did.

 

Paricc volt in allegria

in sul fin d'on quai disnà

ho prováa a mollà la bria

al me ingegn per fàll trottà

ma el bell trott l'é stá trii pass

e poeu traccheta, fermass.

 

El bel frutt che n'ho caváa

de sti me speculazion

l'é sta quell d'ess saludaa

per el primm re di mincion,

No no no me catten pu'

vui di pesg ma pensagh su.

 

Ma dell'Ostaria della Nôs, si parlò ancora alcuni anni fa, quando sorse una cortese polemica, che interessava la vita della così detta scapigliatura milanese.

Otto Cima, in un articolo del Corriere della Sera, del 24 ottobre 1926, parlando del geniale fondatore della Famiglia Artistica, Vespasiano Bignami, si era espresso così:

« ... Bignami fu il Nestore degli Artisti milanesi. Quanti ne conobbe e tutti lo amarono dal giorno in cui si mise a rastrellarli all'Ostaria de la Nôs in Porta Ticinese, quella del Polpetta in Monforte e nell'ortaglia Cicogna nel deserto Vivaio, dove tra un quinto e una piccola tra una partita a briscola ed una di mezz'oncia con qualche modella, s'avviavano, senza forse sognarlo, alla celebrità!».

Cortesemente il cronista meneghino intendeva difendere gli artisti dalla cruda accusa di «biechi bevitor d'acqua» che il Rovani, imperante nella Bohême milanese, avrebbe potuto loro lanciare... «Ariston men udor»1 cantò Pindaro in un momento di melanconia e di decollaggio da suoi arditi voli nel cielo... ma gli artisti non condivisero mai, forse perché mal masticavano il greco, quelle parole di colore oscuro, in cui l'àriston non suonava, alle loro orecchie, che come pretesto per pirlare all'Osteria dell'Orcello.

Ma il Bignami di questa difesa di Otto Cima non volle saperne. Montò in arcioni e con quell'arte magnifica, ch'egli possedeva, prendendo pretesto così rispose: « Aveo fissato di star zitto ma - pensandoci su - non è forse inopportuno cogliere questa occasione per diradare la nebbia che offusca da troppo tempo la fama della classe artistica, mettendo in luce alcune verità.

La verità - lasciò scritto Voltaire - ha dei diritti imprescindibili e il dirla non è mai fuor di stagione.

Diciamola dunque.

A falso che gli artisti della mia generazione fossero in maggioranza degli spensierati, pronti a fare il burattino per divertire il pubblico. Contro la rancida leggenda, io protesto in nome dei miei indimenticabili compagni che non possono più essere presenti.

Degli avversari e degli indifferenti non ci deve importare e non m'importa.

Parlo a voi tanto cortesi e indulgenti. Parlo agli amici.

Uno di questi - a me carissimo e tutto miele quando parla di me - ha scritto che io per fondare la Famiglia Artistica andavo a rarastrellare i colleghi nelle osterie; e cita la Nós che io non ho mai vista e qualche altra che ho visto passando in istrada. Un brano insomma de la favola.

E io domando: dove mai, lui, così bene informato della vita milanese, andò a pescare questo bel granchio? Non è affatto vero che si passasse il tempo all'osteria e che là fossero i nostri ritrovi. Io per primo fui tiepido amatore del vino perchè mi faceva male, e da una decina d'anni non bevo che acqua fresca. Se c'è stato fra noi qualche bevitore fu un'eccezione. Gli enofili sani bevevano con misura alla tavola delle loro famiglie...

Io (allude alla fondazione della Famiglia Artistica) raccolsi le firme degli aderenti al mio appello sotto quattro copie di una lettera che per mano mia e di tre amici artisti, circolarono all'asciutto e tornarono tutte quattro sottoscritte da oltre cento nomi... senza macchie di inchiostro né d'impronte digitali color barbera.

Si stava chiusi nei nostri studi, si lavorava... ».

E continua dicendo che se qualche spensierata ora di buon umore interrompeva il tenace lavoro, «codeste non eran che parentesi alla nostra vita severa, e occupavano poco spazio non erano che rumorosi sternuti nel silenzio di un lungo raccoglimento».

E il Bignami è tutto in queste parole. Ecco perchè, trascorsa la breve baldoria del carnevalone e passata la prima domenica di quaresima col suo sfarzoso corso di carrozze, si rientrava nell'ordine.

Così, con parola equilibrata e con senso di dignitosa misura, Vespasiano Bignami sfatava una volta per sempre, e ne prendiamo atto, quella leggenda sulle stramberie della Bohême milanese, che il Cima, senza ben vagliare, aveva tradotto in istoria.

Riferendoci ancora a quel geniale fenomeno artistico, che fu la scapigliatura, «frenetica di novità e ubbriacata di negazioni» si legge in un frammento delle «Note Azzurre» di Carlo Dossi, un accenno al Rovani, che, come è noto, passò alla storia come «maestro» della scapigliatura stessa. Da questo accenno a un quadro ideale, che il Dossi immagina nel cortile de la Nôs, si sviluppa una lezione sulle affinità delle arti (procedenti indissolubili, come le Grazie, per le vie della storia) che, come Piero Nardi dimostra nel suo volume «La Scapigliatura» è un, prezioso contributo sella teoria estetica del Rovani. Si legge nel frammento: «(Tema del quadro): IL CORTILE DELLA NOCE a Milano. Rovani a una tavola, circondato da un'eletta schiera di letterati e sii artisti. Beve e fa loro lezione di estetica. Questo quadro darebbe  l'occasione di conservare le sembianze di molti egregi onor di Milano, quali il Cremona, il Ranzoni, il Grandi, il Magni, l'Uberti... (è anche Dossi in un canto)

E' il quadro potrebbe intitolarsi: una cattedra a l'aria aperta». Questa rievocazione geniale del cortile della Nôs quale sfondo di una lezione d'arte, è bello; è pieno di rusticana poesia; è grande come una pagina del convito platonico ove, da Diotima ad Erissimaco, si svolgono, nei conviviali discorsi, le più ardite teorie su l'amore.

Non per nulla Baltramina di Porta Snesa, nella commedia di C. M. Maggi designava l'Ostaria de la Nôs come sede dell'Accademia, dei cantori meneghini.

 

... Baltramina mì sont de Porta Snesa

Che vendeva herb e porr:

Despoeu con fa el mestée de firà i or

Sul forbeson cantaeva a la distesa.

Me sentinn a cantà cert virtuos

Ch'han per soua Accademia

l'OSTARIA DE LA NÔS

E parchè heva ona vos de ferr et strasc

Me mandenn a quel mont ch'ha nom Barnasc.

 

Dove si vede che l'Ostaria de la Nôs risale al seicento.

E un altro episodio è raccontato dal Dossi nella Fricassea critica di arte storia e letteratura. Un giorno Paolo Gorini, il noto geologo lodigiano, che, direbbe il Raiberti, «fabbricava i vulcani nelle padelle», di passaggio a Milano, si lasciò condurre dall'amico Luigi Perelli alla Osteria della Noce, frequentata, come è noto, dal Rovani Appena questi vide il Gorini (che, sia detto tra parentesi, amava l'acqua al punto da esclamare «oh se l'acqua si vendesse in bottiglie come sarebbe buona!») ordinò tosto che si sturasse la miglior bottiglia (di vino ben inteso) dell'osteria.

Ed ecco apparire il vassoio, carico di bicchieri di acqua rossa, come veniva chiamato il vino dal Gorini. Rovani, prendendone uno, lo presentò al geologo illustre; ma questi, che già si trovava seduto ad un capo della tavola, erasi previamente, fatto portare una caraffa di acqua (di bieca acqua, la epitetava il Rovani) e riparato dietro di essa attendeva l'assalto. «Il grande scrittore, ricorda il Dossi, col calice colmo, senz'ardire di offrirlo, era dinanzi al grande scienziato, che non osava respingerlo. Indagavansi reciprocamente quei due uomini, l'uno con quel suo sguardo aperto e trionfale, l'altro con quegli occhiettini che, quando pareva volessero celarsi sotto le palpebre, lanciavano i loro lampi più acuti.

Fu un muto colloquio tra essi: una sintetica disputa forse sui loro modi di vita, così diversi, eppure così scusabili in tutti e due.

Fu un incontro, che non dovea più rinnovarsi se non dopo quattro anni, quando Gorini, negli ultimi del gennaio del 1874, immortalava (leggi imbalsamava) la salma di chi aveva già saputo immortalarsi lo spirito colle Tre Arti, i Cento Anni e la Giovinezza di Cesare. Tenui e preziosi toni minori sul quadro vivace della scapigliatura lombarda.

Un ultimo ricordo.

Rovani, assiduo frequentatore della Nôs, si trovò un giorno con un debito non lieve, verso l'oste, per bottiglie allegramente vuotate.

L'oste pretendeva il pagamento. Come fare? Rovani propone un contratto che è accettato. Egli scriverà, facendo un conguaglio, un certo numero di versi per ogni bottiglia bevuta; tanti sonetti fino all'estinzione del debito. Ben inteso nei sonetti dovevano esser citati tutti i vini bevuti (e ce n'erano d'ogni qualità!). Il debito fu pagato così.

Quanti ricordi nostrani raccolti tra questi vecchi muri! Lasciando l'Osteria de la Nôs, sento l'ostessa sussurrare alla cameriera: « Saveu chi xe? » - «Siora no; el xe un foresto! »...

 

 

 

 

Note:

(1) « ottima è l'acqua ».

La Canzon

Milanesa